La scrittura è la pittura della voce (Voltaire).


Uno degli ambiti di studio dell’antropologia culturale è il confronto fra culture orali e culture che si affidano alla scrittura. Sebbene nelle culture orali i soggetti abbiano gli stessi potenziali intellettuali di chi utilizza la scrittura, è certo che lo stile di pensiero di chi maneggia quotidianamente un alfabeto grafico è per certi aspetti diverso da quello di chi predilige la comunicazione solo orale. La scrittura consente l’acquisizione di un pensiero più ampio di quello legato all’oralità.
Per esempio, gli studi condotti da Alexandr Lurija in Uzbekistan negli anni ‘30 hanno dimostrato che l’oralità primaria porta a non utilizzare e conoscere concetti di geometria, o matematici, ovvero il pensiero astratto.
Un caso particolare, ed è quello su cui mi soffermo, è la regressione all'oralità tipica delle società ricche e postmoderne, come la nostra.  Il linguaggio televisivo e le forme di trasmissione delle informazioni tramite immagini (cinema, internet, sms, fumetti etc.) hanno portato a una regressione della ricchezza lessicale e delle conoscenze linguistiche di certe fasce sociali e di età.


I giovani, i nativi digitali, iniziano a utilizzare dispositivi mobili fin dalla tenera età. Un bambino di 2 anni sa perfettamente riprodurre un video sul cellulare o tablet, mentre a 5 è in grado di scattare foto. Il cellulare è l’oggetto e il gioco più affascinante. Le immagini, per chi non ha ancora appreso la scrittura, sono l’unico modo in cui si può usufruire delle conoscenze del mondo esterno.
Il problema sorge quando, nonostante la scrittura, e nonostante gli anni scolastici, il primato dell’immagine sulla scrittura non viene meno.  I social network sono i genitori di questo fenomeno. Facebook e ancora di più Instagram spingono a comunicare tramite immagini, video, brevi video, storie (che poi storie non sono mai), mentre Twitter addirittura obbliga a scrivere senza eccedere un determinato, esiguo, numero di caratteri.
Tutto deve essere veloce e immediato e, soprattutto, semplice. Non c’è tempo di leggere un testo che superi le 3 righe, è troppo difficile usare i neuroni per capire la profondità di un testo, con le sue scelte logiche, lessicali, semantiche.
Gli effetti però sono deleteri.  Si potrebbe dire che, in una cultura in cui il tempo è denaro (ma perché poi? Lavoriamo forse tutti 12\13 ore al giorno?) l’immediatezza di un’immagine, sia essa una foto o una emoticon, è un bene. Invece diventiamo tutti più poveri.
Si perde lo stimolo ad esercitare il pensiero astratto, così come l’argomentazione, la dialettica, il dialogo.
Conversazioni che non sono altro che “like” a post sui social, commenti che non sono altro che emoticon.
E il pensiero, dove è rimasto? Al fresco, congelato nel nostro cervello.
L’antropologo Goody sostenne che la scrittura, quando comparve, agì come una sorta di “domesticamento del pensiero”. L’impoverimento della scrittura ha riportato il pensiero indietro, in un Alto Medioevo, in cui l’Europa dell’epoca  è ricoperta di foreste, strade e infrastrutture devastate, villaggi sparsi di homo homini lupus e biblioteche distrutte.
Anche dal punto di vista relazionale la perdita della scrittura è pericolosa. Quante volte, in risposta a un commento in arrivo su WhatsApp, replichiamo con una faccina gialla sorridente, piuttosto che rossa furente, o blu piangente, invece che scrivere e spiegare come ci sentiamo e perché?
Ma quale intensità e profondità hanno queste relazioni? Quanto ci facciamo conoscere e quanto conosciamo l’altro, se ci presentiamo con una catena di foto, tutte abilmente ritoccate, filtrate, etichettate o di anonime faccine che in nulla somigliano al nostro splendido, imperfetto e ricchissimo viso?
Infine, ed è l’effetto più grave, la comunicazione per immagini ci sta togliendo la libertà. Siamo schiavi delle immagini e dei video, poiché in molti social non è permesso mostrare altro che quelli. E come ci liberiamo dai social, quando la nostra vita sociale è quasi interamente illuminata custodita retta e governata da loro? Sono i nostri angeli custodi. Custodi della prigione in cui la postmodernità ci ha chiuso.



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